Camosci d’Italia – Nella Penisola troviamo i camosci alpini e i camosci degli Appennini. Il camoscio alpino è catalogato come Rupicapra rupicapra, quello appenninico è noto come Rupicapra pyrenaica ornata. le differenze tra i primi e i secondi sono sottili e dipendono dalla loro vicenda evolutiva.

Camosci alpini tra cenge e pareti, estate (Foto: Franco Gray)

Camosci delle Alpi in estate: il colore del pelame tende al rossiccio come quello dei camosci appenninici, ma con l’arrivo del freddo il mantello varierà e andrà verso tonalità molto più scure. Le differenze tra le due specie sono ben visibili nelle foto che seguono… (Foto: Franco Gray)

 

Camoscio appenninico, inverno - (Foto: Angelina Iannarelli

Camoscio appenninico in inverno (Foto: Angelina Iannarelli)

 La foto a sinistra – di Angelina Iannarelli – mostra un camoscio appenninico in inverno. Se confrontata con le foto di Roberto Vallet e di Emilio Ricci  dei camosci alpini  tra la neve riprodotte più avanti balzano subito agli occhi le differenze della colorazione invernale del mantello che – tra altri segni distintivi – caratterizza le due specie. 

Le differenze, in breve:

 Nei camosci degli Appennini il manto rossastro in inverno si fa più accentuato, in particolare nelle zone di colore scuro che caratterizzano la zona alto-mascellare, il dorso e altre parti del corpo. Quelli alpini mostrano invece il mantello di colore scuro quasi uniforme. In entrambe le specie il pelo cresce notevolmente all’inizio della stagione fredda, ma diminuirà gradualmente in primavera e – poiché in natura tutto viene riutilizzato – i peli che cadono al suolo saranno usati da parecchi  uccelli nella costruzione del nido.

Anche le corna degli animali adulti fanno registrare alcune differenze: sono più lunghe e arcuate nella specie appenninica. Le variazioni di peso non sono considerevoli:   in età adulta i maschi alpini non superano i 50 chili. I loro consimili dell’Appennino sono però di taglia poco più modesta.

La storia evolutiva delle due specie inizia circa 250.000 anni fa, durante le migrazioni dalle montagne verso pascoli più ricchi. Le due specie sono dunque sopravvissute all’Uomo di Neanderthal, il predecessore dell’Homo sapiens-sapiens. Perché? 

I camosci: salvati dalla loro stessa  diffidenza?

Tr le rupi:  giovani camosci appenninici e adulto di guardia (Foto: Angelina Iannarelli)

Gruppo di giovani camosci appenninici con una femmina adulta in guardia tra le rupi (Foto: Angelina Iannarelli)

Il camoscio, al contrario dello stambecco, anche nelle zone protette non si lascia avvicinare facilmente. A differenza dello stambecco – scampato all’estinzione grazie all’istituzione di una riserva di caccia in quello che oggi è il Parco Nazionale del Gran Paradiso –  la specie se l’è cavata da sola in barba a cacciatori, bracconieri, lupi, aquile e volpi.  Più volte minacciati da cacce indiscriminate, viene da pensare che i camosci siano riusciti a sopravvivere  grazie soprattutto alla loro indole schiva: durante la bella stagione si spingono infatti nei luoghi più impervi, dove la particolare struttura degli zoccoli permette loro di attestarsi lungo pareti quasi impraticabili per i mammiferi predatori, Homo sapiens-sapiens compreso. Durante la stagione calda le rupi diventano un rifugio sicuro e i branchi vi trovano cibo a sufficienza, ma con il gelo e la neve dell’inverno i camosci scendono verso il fondovalle  e si adattano a un diverso regime alimentare: negli arbusteti e nei boschi trovano gemme, foglie di conifere, giovani cortecce, ciò che resta delle erbe, semi e muschi. In breve, sopravvivono perché  si adattano:  molte foto li mostrano mentre si cibano delle pigne e dei licheni frondosi che crescono sui rami. Altro punto di forza è dovuto al loro comportamento sociale e alla protezione offerta dal gruppo: in effetti i camosci più vecchi tendono ad isolarsi, ma gli esemplari ancora vigorosi si riuniscono in piccoli branchi composti da pochi maschi e dalle femmine con i piccoli. In questo modo riescono a mantenersi vigili e a contrastare, almeno in parte, anche gli attacchi dei predatori che – come l’aquila – arrivano dal cielo.

Nella neve, sfida tra camosci maschi all'inizio della stagione riproduttiva

Valle d’Aosta: sfida tra camosci maschi (Foto: Roberto Vallet)

La riproduzione e l’allevamento della prole – Novembre: per  i camosci inizia la stagione riproduttiva e le lotte tra maschi – seppure poco cruente – non mancano. I maschi – che in genere passano la bella stagione isolati dal resto del branco –  con l’arrivo dei primi freddi si sfidano per la conquista delle femmine: è la stagione dei grandi branchi. L’accoppiamento avviene verso la fine del’anno e la gestazione dura circa cinque mesi per cui  – in genere verso maggio – i capretti vedono la luce. I parti gemellari non sono frequenti. 

Allattamento dei capretti: contesa alimentare (Foto: Angelina Iannarelli

Camoscio d’Abruzzo con i piccoli: contesa alimentare. A destra. un capretto ormai quasi svezzato (Foto: Angelina Iannarelli)

Scrive Angelina Iannarelli in merito alle due foto sui camosci d’Abruzzo pubblicate in alto:

I piccoli di camoscio nascono a fine maggio, in genere la femmina partorisce un solo individuo, più raramente due. A volte si osservano femmine con più cuccioli e si pensa a parti gemellari o trigemellari, ma si tratta di errori di osservazione: la femmina che accudisce più piccoli in realtà sta svolgendo il ruolo di balia. In pratica, a turno, le femmine esperte e con un’alta gerarchia si occupano dei piccoli del branco (ne ho contati fino a 15), mentre le rispettive mamme si alimentano o controllano il territorio. Questa organizzazione viene definita “asilo nido dei camosci”. La camoscia che svolge questo ruolo può essere un’anziana, una femmina che quell’anno non ha procreato oppure una mamma. In quest’ultimo caso può succedere che , quando la mamma-balia allatta il proprio cucciolo, altri si facciano sotto per succhiare a loro volta.

Nella prima foto si vede una mamma-balia che allatta il suo piccolo, ma acconsente anche ad altri due dei camoscetti che sta accudendo di succhiare. La foto è degli inizi luglio, quindi i piccoli hanno circa un mese e mezzo.

La foto di destra è di fine ottobre. Il capretto ha circa 4 mesi. È svezzato ma prende ancora frequentemente il latte, in pratica prova a farsi allattare ogni qualvolta vede la mamma in posizione adatta. La mamma a volte acconsente, altre volte si rifiuta.

(Angelina Iannarelli)

I camosci si prendono cura della prole, sfruttano le opportunità offerte dalla vita di gruppo, sanno sopravvivere nelle zone più inospitali e sono abbastanza prolifici, ma la loro salvaguardia è dovuta anche a provvedimenti legislativi lungimiranti: se è vero che i camosci sanno autoproteggersi, è altrettanto vero che l’istituzione dei Parchi Naturali ne ha favorito la diffusione. Tra i primi provvedimenti legislativi a tutela delle due specie presenti in Italia sono da ricordare:

l‘istituzione della riserva di caccia di Ceresole, in val d’Aosta  (nella seconda metà dell’Ottocento);

il divieto di caccia al camoscio d’Abruzzo all’epoca del Governo Nitti (1913).

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I camosci delle Alpi

Fotocomposizione con animali che possiamo trovare in montagna

Animali che frequentano ambienti dirupati delle Alpi: stambecco, camoscio e pecora (F. Franco Gray)

I camosci alpini dividono spesso le zone di pascolo con gli stambecchi, a volte anche con gli animali domestici più rustici che riescono ad inerpicarsi sulle pareti che incombono sugli ultimi pascoli. Nella fotocomposizione in alto: a sinistra un maschio adulto di stambecco,  al centro un camoscio alpino in corsa. A destra una pecora di razza Biellese al pascolo tra cenge e pareti quasi verticali.

Camosci alpini – Vediamoli da vicino, con qualche accenno agli ambienti in cui vivono e alle misure di tutela adottate…  

Camoscio alpino, neve - CFoto: Emilio Ricci)

Camoscio alpino tra gli arbusti piegati dalla neve: lasciate le rupi, cerca cibo a quote meno elevate (Foto: Emilio Ricci)

Valsesia e valli confinanti…

Fino all’istituzione del Parco Naturale, in Alta Valsesia i camosci erano quasi invisibili agli escursionisti poco ferrati. Gli alpigiani raccontavano però che  a volte si avvicinavano ai pascoli per leccare il sale pastorizio destinato agli animali domestici: lo facevano alle prime luci dell’alba e al minimo rumore sparivano tra gli arbusti dai quali erano sbucati. Le testimonianze della loro presenza – detto in breve – a mio parere spaziavano tra le storie di bracconaggio, le fanfaronate di chi raccontava di averli avvicinati e le scarse informazioni fornite dai montanari.

Nel 1979 nacque il Parco Naturale Alta Valsesia. Da quella data – a parte un’epidemia di cheratocongiuntivite scoppiata proprio all’inizio degli  Anni Ottanta del secolo scorso – la vita dei camosci è stata meno dura: nei Parchi e nelle zone protette sono sempre vigili ma – pur non avendo alterato la loro natura – sembrano meno diffidenti. la loro presenza è segnalata in tutto l’arco alpino e anche su alcune montagne isolate che mi sento di definire “isole felici” .

Cartelli presso il Rifugio pastore (Foto: Rodolfo Labelli)

Parco naturale Alta Valsesia: segnavia posti nei pressi del pianoro su cui troviamo il Rifugio Pastore  (Foto: Rodolfo Baselli)

 La foto di Rodolfo Baselli mostra i segnavia che, dal pianoro del Rifugio Pastore, danno indicazioni sui sentieri che portano verso i rifugi, gli alpeggi e i pascoli. Il regno dei camosci si trova verso le cime, ma  con la neve sono possibili incontri anche a quote più basse.

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I camosci degli Appennini

Camoscio d'Abruzzo in allattamento (Foto: Angelina Iannarelli)

Camoscio appenninico in allattamento (Foto Angelina Iannarelli)

Il Parco d’Abruzzo e la sua espansione – Il camoscio appenninico è protetto sin dal 1913 (Regio Decreto del 9 gennaio 1913). Il Parco Nazionale d’Abruzzo iniziò il suo iter istitutivo nel 1921 quando nacque l’Ente Autonomo Parco nazionale d’Abruzzo. La cerimonia si tenne nel Comune di Opi, che si prese in carico 500 ettari della Costa Camosciara. Nel 1922 Il Parco fu “ufficializzato”, iniziò ad espandersi ed è ora noto come Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.

Protetto inizialmente nei monti della Camosciara, il camoscio d’Abruzzo ha poi ripopolato varie zone dell’Appennino. Si legge nella pubblicazione citata in calce  che:

[…] In due distinte operazioni i camosci furono reintrodotti sulla Majella e sul Gran Sasso, prima nelle aree faunistiche, poi in natura, con due nuclei di riproduttori, originati da una unica popolazione madre, quella del Parco Nazionale d’Abruzzo, che avrebbero assicurato lo sviluppo di popolazioni distinte sui due massicci, mettendo così il Camoscio al sicuro da pericoli che avrebbero potuto mettere a rischio il suo futuro, come malattie, eventi climatici e altri […]

Riduzione  e adattamento da un articolo di Paolo Reffo – Natura Protetta, trimestrale di informazione del P.N. D’Abruzzo e Molise, n° 18

 Aree faunistiche protette del Camoscio: Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

Il maggiociondolo: un arbusto salutare – Parecchi anni fa, nel corso di una visita  nel Parco Nazionale d’Abruzzo, ebbi modo di incontrare dei guardaparco impegnati nella gestione di un’area faunistica protetta  in cui vivevano dei camosci: si trattava di un grande recinto destinato a pochi esemplari. Gli addetti vi portavano quotidianamente acqua fresca e e spesse volte fasci di maggiociondolo. A quanto mi raccontarono, detto arbusto è molto gradito ai camosci e pare che li mantenga in buona salute.

Maggiociondolo in fiore (Foto: Franco Gray)

Maggiociondolo in fiore (Foto: Franco Gray)

Nei Parchi dell’Appennino Centrale sono presenti aree faunistiche protette dove i camosci possono vivere in semi-libertà: si tratta di grandi recinti attrezzati  dove è facile procedere alle catture degli animali destinati alle zone di ripopolamento. L’esperienza ha portato alla realizzazione di un  “Protocollo per la gestione dei nuclei di camoscio in cattività“.

Informazione in merito nel Link sottostante:

http://www.camoscioappenninico.it/sites/camoscioappenninico.it/files/docs/1.pdf


Camoscio appenninico

Un camoscio appenninico sul finire dell’inverno. L’erba è ancora secca e gli alberi aspettano le foglie, ma nelle zone protette  la sopravvivenza è assicurata dal fieno presente nelle mangiatoie (Foto: Pietro Santucci)

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Bassa Valsesia – I camosci del Monte Fenera

 

Monte Fenera visto dalle colline (Foto: Franco Gray)

Il Fenera visto dalle colline ad Ovest del monte, maggio. Circondato da paesi e lontano circa cinquanta chilometri dalle montagne  dell’arco alpino, ospita una colonia di camosci sulla cui provenienza permangono parecchi interrogativi… (Foto: Franco Gray)

Il Monte Fenera fa parte delle zone protette della Regione Piemonte. Si tratta di un massiccio di rocce  sedimentarie che poggiano su un piano di vulcanite. Noto per le sue grotte, i suoi pinnacoli e le ricerche che vi conduce l’Università di Pavia, tra i boschi e i dirupi che lo caratterizzano troviamo una colonia di camosci…

Camosci, Monte Fenera (Foto: Tito Princisvalle)

Camosci, Monte Fenera (Foto: Tito Princisvalle)

A lato – Parco Naturale del Monte Fenera, primavera. La foto è stata scattata nel punto in cui i camosci trovano il sale. Per quanto vivano in una zona protetta i camosci del parco  nei confronti del genere umano mantengono la loro tradizionale diffidenza.

Le vicende dei camosci del Fenera meritano un momento di attenzione. Questi animali vivono infatti su un monte di 899 metri di altezza che, con un poco di fantasia, potremmo definire  un’isola della bassa Valsesia in quanto è  circondata da centri abitati, da boschi di collina medio-alta  e da zone occupate dalle colture. Insomma: nessun collegamento con le catene alpine che si stagliano a circa 40 chilometri di distanza. Come i camosci siano arrivati sul Fenera non si sa. Circa la loro consistenza numerica non vi sono dati certi.

Scrive Tito Princisvalle:

La popolazione di camosci al Fenera credo si aggiri attorno alla trentina di esemplari, un dato da prendere con le molle visto che un censimento preciso è difficilissimo da farsi a causa della copertura arborea del territorio. In Alta Valsesia abbiamo delle aree campione che danno una densità di camosci attorno ai 4/6 animali per kmq.

  La memoria storica può aiutare ma non dà certezze: stando alle voci raccolte da Tito Princisvalle pare che una piccola colonia fosse presente negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale e… più indietro non si riesce ad andare per la scomparsa fisica delle fonti orali. Quanto alle fonti scritte consultate, i riferimenti sono per lo più rivolti ai reperti fossili. In “Dal Fenera al Piano Rosa” troviamo parecchie pagine dedicate alla fauna del Fenera ma i camosci non compaiono: forse negli anni in cui quel libro fu pubblicato trovavano più prudente starsene celati nella macchia, al riparo dagli occhi indiscreti e soprattutto… dal piombo dei bracconieri.

Articolo a cura di Franco Gray (All’anagrafe Franco Bertola) – Foto di  Roberto Vallet, Emilio Ricci, Rodolfo Baselli, Pietro Santucci – Delucidazioni e foto di Angelina Iannarelli  e Tito Princisvalle

Testo citato:

Roberto Vanzi – Dal Fenera al Piano Rosa, Guida alla Natura – Pubblicato da Pro Natura, S.d. – Edizione fuori commercio realizzata per le Scuole e altri Enti

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