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Questa  è la storia di Kain, un  cane da pastore che nell’Agosto del 1975 trovò il corpo del suo padrone in fondo a un burrone. Giovanni Allegra, pastore noto nell’Alta Valsesia, allora 46enne,  fu così seppellito  nel cimitero di Agnona, a Borgosesia. Il coraggioso Kain rimase per un certo periodo  presso l’abitazione della sorella del suo padrone, in seguito scomparve misteriosamente.

  

La scelta di adottare nella narrazione il punto di vista del cane vuole essere uno spunto di riflessione per invitare tutti noi a considerare quanto possa essere fondamentale l’amicizia di un animale per un uomo. Ritengo che in qualche modo Kain abbia infatti salvato il suo padrone permettendogli, se pur nel più triste dei modi, di ricongiungersi ai suoi cari.

 

 

 Sara Olivieri

 

 Per tutta la vita sono stato un cane da pastore. Seguire il mio padrone tra i monti è stata la mia unica ragione di vita.  Mi basta chiudere gli occhi un istante per rivedere i prati verdi, per risentire la carezza del vento sulla schiena, il profumo dei fiori freschi. La vita del pastore è molto pesante: la giornata inizia prima dell’alba ed è piena di sacrifici. Nonostante le difficoltà ho amato immensamente le notti trascorse sotto le stelle a vegliare sul mio padrone che dormiva. Il nostro legame era impareggiabile: sorvegliando il bestiame, abbiamo affrontato insieme inverni rigidi ed estati fresche. In paese gli altri pastori non perdevano l’occasione per elogiare il mio padrone per i miei servigi. Qualcuno arrivò persino a chiedergli di vendermi: “Mai” rispondeva Giuvanett, e il mio cuore di cane si gonfiava d’orgoglio. Il mio padrone si fidava ciecamente di me ed io ne ero così fiero che sarei stato disposto a tutto pur di non deluderlo. Quando ero lasciato solo con il bestiame, sapevo esattamente cosa dovevo fare e quali erano i miei doveri: ero stato addestrato fin da cucciolo a fare il pastore. Credevo, nell’ingenuità di un servo fedele, che non avrei mai potuto smettere di essere felice, che io ed il mio amato padrone saremmo invecchiati insieme e che avremmo trascorso l’ultimo dei nostri giorni tra i monti seduti l’uno accanto all’altro sull’erba, come sempre. I miei calcoli però si sono rivelati decisamente errati.

   Era una bella mattina d’agosto del 1975 e come d’abitudine mi trovavo  in un alpeggio dell’Alta Valsesia, ma qualcosa nell’aria mi trasmetteva una sensazione d’angoscia. Il vento era diverso dal solito: soffiando sembrava sussurrare un lugubre canto; qualcosa di funesto stava per accadere, il mio intuito di cane mi suggeriva di restare all’erta. Le pecore  pascolavano giulive e inconsapevoli come sempre ma il mio padrone non era al mio fianco.  Il tempo passava, il sole brillava ormai alto sopra di me ma stranamente non riuscivo a sentire il suo calore. Era come se la strana inquietudine che provavo avesse fermato il mondo. Mentre attendevo il Giuvanett, tutto mi appariva gelido ed immobile, poi l’impazienza mi assalì: non potevo più aspettare, sapevo che il mio padrone sarebbe stato deluso di vedermi abbandonare il gregge ma non potevo non andare a cercarlo. Il cuore mi batteva forte, sentivo una forza oscura opprimermi dentro. La mia natura di cane, il mio istinto stava prendendo il sopravvento su ciò che ero stato addestrato a fare. Ombre scure mi annebbiavano la vista, immagini di morte raffreddavano il mio spirito impaziente. “è troppo tardi!” pensai “ma per cosa?” Presi un sentiero diverso dal solito, come se qualcuno mi invitasse ad andare in quella direzione. Conoscevo quella strada, nessun angolo di quelle montagne mi era sconosciuto, ma soltanto trovandomi davanti ad un pendio scosceso che realizzai effettivamente dove mi trovavo. “No, non può essere qui! Non prende mai questa strada” continuavo a ripetermi. Il mio istinto, come una calamita, mi attirò verso l’orlo di un precipizio: “Perché?” continuavo a chiedermi. Mi affacciai. Un brivido d’orrore mi attraversò la schiena e iniziai a tremare abbaiando disperatamente. Il mio amato padrone giaceva immobile sul fondo del burrone. La mia voce cercava invano di raggiungerlo per invitarlo a muoversi. Era tutto inutile.

    Iniziai a correre per la montagna come se le forze di tutti i venti del mondo si fossero sommate dentro di me per farmi volare in paese: era la forza della disperazione. In un baleno raggiunsi il villaggio. Le persone mi guardavano, mi chiamavano “ehi, Kain!” io abbaiavo disperato ma non riuscivo a farmi capire. “… è il cane del Giuvanett, deve essere accaduto qualcosa” disse infine il garzone del mio padrone. Un poco confortato per essere riuscito a trovare qualcuno in grado di comprendere lo stato di assoluta emergenza che cercavo di esprimere per mezzo dei miei guaiti, condussi il garzone e altri due uomini fino nel punto in cui avevo trovato il mio caro compagno. La reazione degli uomini fu, per ciò che potei comprendere, molto simile alla mia; erano “sconcertati”. Sconcertato, pensai, è così che si dice quando si prova quello strano brivido che mi aveva percorso la schiena. I cani e gli uomini hanno diverse cose in comune, gli occhi di quei tre esseri umani lasciavano intravvedere un velo di dolore che doveva essere lo stesso che si vedeva ne miei. Il garzone del mio padrone corse in paese a cercare aiuto, arrivarono i soccorsi, i resti del mio povero padrone furono tirati fuori dal burrone e depositati proprio davanti a me. Giuvanett aveva gli occhi chiusi, il volto pallido e totalmente privo di espressione; strane macchie sparse su tutto il corpo lo rendevano quasi irriconoscibile.  Gli leccai dolcemente il viso com’ero solito fare ogni mattina ma fu con orrore che percepii il gelo che il suo corpo emanava. La sua mano non si mosse per accarezzarmi amorevolmente come sempre: era tesa, immobile come pietra. “è morto ormai da diverse ore” disse un uomo. Ma non era così, non per me! Il mio amato padrone non era morto, amava la montagna e aveva deciso di diventarne parte, il suo corpo rigido lo dimostrava. Doveva essere così, era certamente stato il suo spirito a chiamarmi perché lo ritrovassi. So cosa pensate, sto farneticando, forse avete ragione, ma vi prego, siate indulgenti con i pensieri di un povero cane che in pochi attimi, forse a causa di una scivolata, ha perso tutto ciò che aveva. Il mio mondo fatto di sole, di pioggia, di prati, di greggi e delle affettuose carezze del mio padrone   è precipitato con lui in quel burrone ma il ricordo di tutto questo vive ancora dentro di me.

   Per tutta la vita sono stato un cane da pastore. Ora, anche se la mia casa non è più sui monti, tra gli animali, io so di essere ancora un pastore. Quand’ero un cucciolo Giuvanett mi insegnò a custodire il gregge, mi disse che ero il guardiano delle pecore: oggi sono il guardiano dei ricordi   e li voglio tramandare.

Kain

 Il racconto assume un particolare valore per l’autrice: Sara Olivieri è infatti nipote di Elsa Allegra, la sorella del “Giuvanet”. La donna per prima vide in Kain “il guardiano delle sue memorie”.  

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